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L'arte di vincere - Recensione

27/01/2012 | Recensioni |
L'arte di vincere - Recensione

Lo sport come metafora. Ancora una volta. Lo sport più americano che c’è, il baseball, e la voglia di vincere. Sul campo e nella vita, ma in modo diverso.
Il baseball, ovvero il simbolo di un paese, della sua storia, del suo carattere.
L’anima del popolo statunitense si rispecchia in pieno nel suo sport nazionale: stessa attitudine alla lotta per la conquista di qualcosa, stessa propensione alla creazione di miti.
Grandi film americani hanno finora raccontato la storia di campioni del baseball e non è un caso. Da Bull Durham con un Kevin Costner nei panni di un campione sul viale del tramonto che divide il campo (e una donna) con l’astro nascente Tim Robbins, a Il migliore con un Robert Redford d’annata. Ora il testimone passa a Brad Pitt chiamato non per il ruolo di qualche campione acclamato dalle folle di stadi in delirio ma a vestire i panni di un General Manager “sui generis”.
Questa volta, dicevamo, si racconta una storia diversa: per toni, atmosfere, messaggi.
L’arte di vincere è basato sulla storia vera di Billy Beane (Brad Pitt). Ex giocatore di baseball con tante delusioni e fallimenti alle spalle, Billy si dedica ora al management. Durante la stagione 2002, deve fronteggiare la difficile situazione della sua squadra, la Oakland A’s, che ha perso i suoi giocatori migliori passati ad altri club dietro l’offerta di guadagni stellari. Costretto a rifondare la squadra con un budget molto più basso dei diretti avversari, Billy cerca di cambiare il sistema con nuove idee prese al di fuori del mondo del baseball. Colpito dalle singolari teorie del giovane economista fresco di laurea Peter Brand (Jonah Hill), lo assume come suo consigliere personale. I due inaugurano un nuovo sistema che mette insieme l’esame di ogni dettaglio nella scelta dei giocatori grazie ad analisi statistiche computerizzate mai utilizzate nel baseball. Sulla base di innovative teorie, ricercano giocatori ormai dimenticati per diverse ragioni: perché troppo strani, perché ritenuti troppo vecchi, reduci da infortuni o difficili da gestire. Secondo le convinzioni di Peter, questi giocatori possiedono ancora potenzialità sottovalutate. I nuovi metodi di Billy e Peter irritano il vecchio team di consiglieri della squadra, i media, i tifosi, ma soprattutto l’allenatore Art Howe (Philip Seymour Hoffman) che continua a seguire le sue idee e si rifiuta di collaborare. Sulle prime fallimentare, l’esperimento porterà a un risultato che darà a Billy una nuova consapevolezza del suo potenziale, non solo come manager sportivo ma anche come uomo.   
“Una classica storia di perdenti” così Brad Pitt ha sintetizzato l’anima del film, la storia di uomini che vanno contro qualcosa di grande, un sistema imprigionato da dure regole di mercato. Rivalutare ciò che è sottovalutato, giocatori, strategie, tattiche, attraverso l’uso di analisi statistiche (un’idea che, per la cronaca, risale allo storico esperto di baseball Bill James che ha coniato il termine di “Sabermetrica”). Una storia di nuove visioni, del proprio lavoro, ma anche della propria vita.
Basandosi sul libro di Michael Lewis del 2003 sceneggiato da Steven Zaillian (Oscar per la sceneggiatura di Schindler’s List) e Aaron Sorkin (statuetta per la sceneggiatura di The Social Network), il regista Bennett Miller (già candidato all’Oscar per la regia di Capote) realizza un film che ha il pregio di suonare una musica nuova, ridefinendo l’immagine del successo. Gran parte del merito va dato al protagonista, un Brad Pitt (qui anche produttore) dal volto nuovo che, con coraggio e talento, indossa i panni di un “perdente”, un uomo che sfida un sistema e che arriva a cambiare le regole del gioco ma soprattutto desideroso di dare un vero significato a quello che sta facendo. La sua è una vittoria silenziosa e personale. Una visione del baseball “romantica” (“Come si fa a non essere romantici col baseball?” ripete più volte Billy inebriato dal suo vittorioso “nuovo corso”), crepuscolare, quasi intima e profondamente sofferta: non si urla, non si portano eroi in trionfo, non si stappano bottiglie ma, cosa ben più importante, si prende coscienza dei propri mezzi e delle proprie potenzialità.
“Voglio che valga qualcosa” dice Billy Beane dopo aver ottenuto un record di vittorie di fila. Già, “deve” valere qualcosa in fondo. Altrimenti che partita è la vita che viviamo?

Elena Bartoni

 


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